P. Cappello, Questa libertà, 6 aprile 2018all_com38-1
P. Cognetti, Le otto montagne, 11 gennaio 2018
E. Fassone, Fine pena: ora, 9 novembre 2017
Il titolo parla da sé. Siamo infatti giunti al secondo appuntamento del Caffè Letterario della scuola, che, ricordiamo, si propone di rendere l’attività della lettura un’occasione di incontro tra studenti, ed è per questo motivo aperto a tutti. Il libro preso in esame, se la volta precedente era stato “Ciò che inferno non è” di A. D’Avenia, di cui ci ha già parlato Marco Capurso due mesetti fa, questa è “L’Attentatrice” di Y. Khadra.
Analizzeremo il libro in parallelo, più o meno, a quelli che sono stati nel corso dell’incontro gli interventi e le riflessioni più salienti, portate avanti non solo magari da una persona, ma dalla collettività, professoresse comprese. Dal mio personale punto di vista, queste riflessioni hanno messo in luce due sostanziali domande: “Il libro dà dalle risposte sulla situazione socio-politica fra Israele e Palestina?”; “Che ruolo hanno, nel libro come in campo reale, la singola persona e i suoi ideali?”
Prima di spiegare, diamo un riassunto veloce del libro, che io per puro rigore formale riporto pari pari tratto dal sito di critica letteraria Qlibri:
“In un ristorante affollato di Tel-Aviv una donna che si finge incinta fa esplodere la bomba che teneva nascosta sotto il suo vestito. Per tutta la giornata il Dottor Amin, israeliano di origini arabe, opera a ritmo da catena di montaggio le innumerevoli vittime di questo ennesimo atroce attentato. Amin si è sempre rifiutato di prendere posizione sul conflitto che oppone il suo popolo d’origine e quello d’adozione, dedicandosi interamente al suo mestiere e a sua moglie Sihem. Nel cuore della notte viene richiamato d’urgenza in ospedale dal suo amico poliziotto Naveed che gli annuncia che Sihem è morta e per giunta era lei la donna kamikaze. Amin comincia la sua particolare investigazione sulla donna misteriosa che ha vissuto per anni assieme a lui.”
Il gigantesco problema degli attentati, da qualche anno a questa parte, ma forse potrei dire anche da qualche mese, sta assumendo sempre maggiore spessore a livello globale e d’opinione pubblica. Le stragi di Parigi hanno scosso letteralmente tutta Europa, e solo qualche giorno fa, il 14 Aprile, il Bataclan ha annunciato la riapertura, con il concerto previsto per il 16 novembre di Pete Doherty. Chi attenta, non lo fa solo per questioni religiose, ma anche politiche, storiche e ovviamente sociali, e molto spesso viene manovrato da forze superiori che lo istigano fare tutto ciò con un lento e calcolato lavaggio del cervello. Appare chiaro come tutto il sistema qui sommariamente descritto sia complicato e difficile da districare. Non vi sono più soluzioni, non vi è una soluzione, non vi è LA soluzione.
Questo dubbio, per usare un ossimoro, è chiarissimo nel libro di Khadra. Non sono date risposte definitive, il lettore si trova sempre in balia di opinioni differenti a causa dei differenti personaggi, e tutte queste opinioni possono essere considerate valide, perché fondate su valori e ragionamenti. Ci si arriva a chiedere quasi addirittura se sulla base di determinati ideali, o determinate “Cause” (termine chiave di tutto il romanzo), possa essere considerato giusto morire da kamikaze.
Si è cercato in questi termini di dare una risposta alla prima domanda sopracitata. Riporto le questioni e non le soluzioni emerse durante il colloquio in biblioteca, perché vorrei che chi consultasse questa recensione trovasse da sé le risposte, dopo ovviamente aver letto il libro.
Alla questione sollevata dal primo interrogativo si ricollega direttamente la questione del secondo. Cioè, una volta trovata una soluzione PERSONALE su come comportarsi nei confronti del proprio paese, del proprio popolo e della propria storia, quanto contano le decisioni prese da noi singoli sulle nostre vite e sulle nostre convinzioni? Siamo sempre certi di essere dalla parte giusta e di conoscere veramente chi ci sta intorno?
Per il chirurgo Amin, protagonista del libro, salvare una vita vuol dire, molto semplicemente, impedire a tutti i costi che una persona muoia, e avere la speranza fino all’ultimo in sala operatoria di poterlo fare. La storia e le origini del singolo non contano, conta solo il singolo stesso. Per altri, salvare una vita, o meglio la propria vita, è possibile soltanto aiutando il proprio paese, non stando impassibili a guardare le mille ingiustizie politiche e sociali cause di guerra e sofferenza. Questo è, per esempio, il punto di vista di Sihem, che si fa esplodere in nome della causa legata alla Palestina.
L’autore non esprime un giudizio personale riguardo le due differenti posizioni. Si limita a sviscerarle, facendole quasi toccare con mano al lettore, e in lui sorge spontanea la seconda domanda sopracitata. Questa, alla fin fine, può essere riassunta in un quesito più semplice: “L’uomo è in balia del corso della Storia o può opporvisi?”
Come prima, non fornisco il mio personale punto di vista. Starà al lettore schierarsi più dalla parte delle proprie radici, oppure più dalla parte delle proprie origini. Il libro OBBLIGA a fare ciò, e proprio qui sta la sua forza. D’altronde, i libri che fanno rimanere indifferenti, forse non sono neanche da considerare tali.
[La recensione, nonché la sinossi, del romanzo si possono trovare nel listino della biblioteca! Questo, quindi, non sarà un riassunto della trama ma una relazione di ciò che è emerso parlando del libro in occasione del primo appuntamento de “L’Angolo della Lettura”.]
Pensieri di “critici” in poche parole.
Consapevoli tutti i partecipanti all’incontro dell’impatto che questo libro imprime sul lettore, l’analisi del contenuto – avvenuta durante il primo incontro de “L’Angolo della lettura” – si è sviluppata a partire da un’importante e provocatoria domanda: il messaggio che l’autore invia al lettore al termine della narrazione è di speranza?
Le risposte emerse durante il dibattito sono state, principalmente, tre.
La prima è che l’intento dello scrittore sia stato quello di suggerire attraverso il racconto come il male sviluppatosi in quella terra, Brancaccio, non ne sia il simbolo. Alcuni hanno ritenuto infatti che l’autore, avendo evidenziato aspetti importanti come il dialogo tra la parte “sana” – Padre Pino Puglisi e Federico – e la parte marcia e corrotta del quartiere palermitano – la manovalanza mafiosa, in primis ‐, costituisca uno strumento importante di riflessione: la storia narrata stimolerebbe infatti nel lettore la speranza che, prima o poi, grazie a personalità significative che stimolino il combattere contro la criminalità e l’illegalità, si possa sradicare il problema della malavita organizzata dall’interno e a monte.
La seconda lettura data al romanzo, invece, nega a quest’ultimo un senso di speranza, leggendovi anzi il suo esatto opposto: il fatto che l’autore descriva minuziosamente i pensieri e le azioni dei mafiosi, così come quelle di padre Puglisi, creerebbe nel lettore la sensazione che il più forte non soltanto prevarichi chi è innocuo e pacifico, ma soprattutto annienti l’Idealista, colui che senza usare violenza vuole cambiare le cose. Questo implicherebbe che per sconfiggere un male violento serva necessariamente usare altra violenza. Aver raccontato come la bontà e la voglia di cambiare abbia ucciso chi la predicava, quindi, sarebbe da intendersi come un messaggio di disperata richiesta di aiuto. E di rassegnazione ad una realtà immutabile.
La terza ed ultima risposta emersa non riconosce nel testo né un messaggio di speranza, né uno di disperazione. Alcuni hanno ritenuto infatti, che nell’opera non sia espresso un giudizio o una vera e propria opinione personale da parte dell’autore (e quindi un messaggio tra le righe), bensì che tutto sia una semplice constatazione degli eventi verificatosi a Brancaccio e datati ‘92/’93.